Ugo Maiorano
quando la tammorra diventa una scelta di vita
"A Vita è bella pecchè s'abball"
( Nando Citarella )
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Madonna di Castello

Le Sette Madonne
Madonna di Castello
Somma Vesuviana (NA)
madonna di Castello
Alla   ricerca dell'anima perduta

Chiari ed ambigui. Riferiti a specifiche situazioni quotidiane eppur alludenti ad un significato esistenziale ed assoluto. Questa è  la caratteristica di fondo dei canti popolari campani, che racchiudono nel loro segreto scrigno  -accanto ad un desiderio di cogliere l'attimo fuggente-   ansie  nascoste, tra cui domina sovrana la Paura per eccellenza: quella di perdere la propria identità, il proprio spirito vitale, la propria anima.
Questa dimensione angosciosa emerge dai testi dei canti, che vengono eseguiti a Somma Vesuviana dal Sabato in Albis fino al 3 maggio in onore della  Madonna di Castello. Per comprendere la valenza delle parole, che si accompagnano a musiche e danze, è opportuno  fornire qualche notizia relativa alla festa dedicata alla Vergine. Tutto  comincia nel lontano 1631,  allorquando una delle solite tremende eruzioni del Vesuvio colpisce la città di Somma Vesuviana e, come attestano le fonti storiche, anche la Chiesa della Madonna di Castello (il cui culto dunque era  preesistente a tale data).
Nel Tempio semidistrutto la statua della Vergine viene ritrovata bruciata e con la testa mozzata; per cui i fedeli pensano di farla ricomporre  da un artigiano  napoletano, che però tira per le lunghe le operazioni di restauro. Finché un giorno dalla cassa, nella quale è riposta la statua, mentre l'artigiano è assente, sua figlia, immobilizzata a letto da una paralisi, si sente chiamare dalla Madonna, la quale la invita ad alzarsi.
Il miracolo si compie, in quanto la fanciulla riprende l'attività motoria; e a lei  la Madonna chiede di invitare il padre a completare l'opera di restauro, che infatti  egli porta subito a  termine. Il risultato finale è  quello che noi tutti possiamo contemplare: un prodotto tipico  dell'arte sacro-popolare. La Vergine reca la veste rossa, il manto azzurro  tempestato di  stelle, i fianchi larghi  (per cui è anche chiamata 'a Mamma  pacchiana),  il Bambino poggiato sulla Sua gamba sinistra ed entrambi reggono  con le  loro mani destre la sfera del mondo.
In ricordo del miracolo della fanciulla guarita e del ritorno  della stattua alla sua primitiva dimora dopo  una fase di forte precarietà sociale, i fedeli sommesi intonano dei canti singolari.  Simbolico è   innanzitutto il contesto spaziale dell'esecuzione canora e coreutica. Tutti i fedeli, riuniti in paranze, si radunano infatti in un sito denominato  Fosso (che rimanda già  nella sua dizione al tema della   caduta da cui è difficile risalire la  china  e dunque della   perdita di equilibrio e di dominio  dei propri movimenti).
In questo luogo iniziano i canti, i quali sono incentrati su presenze femminili, che rinviano tutte a storie di perdite  e  di  ansie. La prima ha come protagonista Isabella, moglie di  Renato d'Angiò ed ultima legittima regina angioina di Napoli.  "Nu  mme chiammate cchiù ronna Sabella/ chiammateme Sabella 'a  sventurata:/ na vota era patrona 'e trentatré castella": è  questo il  lamento della regina che ha perso il suo regno e che perciò, sconfitta, se ne ritorna Oltrealpe.
Un altro brano invece ha come protagonista una donna  non vista dal proprio uomo, che però la sente mentre ella chiama al cibo le galline: "Si nun 'a vire/ 'a siente re cantare./ Tu a siente quannno cchiamma  li  galline". Particolare questo importante, perché è in relazione con  un antico rituale, di cui parla anche Frazer nel suo    Ramo d'oro, in cui il grande antropologo analizza  la paura, tipica delle classi subalterne, di perdere l'anima; quest'ultima poteva essere richiamata e reintegrata nel corpo, spargendo del granturco  a terra e invitandola a mangiarlo, come se fosse una gallina  (animale, peraltro, tipicamente psicopompo, cioè capace di scendere nell'Aldilà per accompagnarvi le anime).
L'utlimo  riferimento, di cui qui ci occupiamo, è  quello ad un giovane il quale, collocando l'episodio in uno scenario  surreale ed onirico, riferisce: "Nu juorno me ne jevo sciummo sciummo/ e truvaie a nenna mia lavanno 'e panne" e, quando chiede alla donna che cosa  faccia lì, ella risponde: "I' lavo 'e panne belle 'e ninnu mio". Si tratta di una chiara allusione ad un' altra credenza, secondo cui il fantasma di una donnna, che ha  perso   la vita per parto o  quando il figlio era ancora in fasce, riappare sulle rive di un fiume (simbolo della vita che scorre) nell'atto di lavare i panni del suo bambino.
Emblematica è anche la disposizione dei fedeli, che cantano accompagnandosi con la tammorra: essi infatti si sistemano in cerchio, figura geometrica che, rappresentando i cicli celesti, è il segno per antonomasia dell'Armonia. E come tale, rinviando anche alla rutota, indica anche il passar e la perdita del Tempo, della Vita, del Principio Vitale, ma contemporaneamente anche la possibilità di riassumerli, riacquistarli, reintegrarli. Nel cerchio, immagine archetipica della totalità della psiche, tutte le angosce dei fedeli popolari, in nome della Vergine Taumaturga, sono perciò ridotte a conoscenza, affrontate e superate.

Ugo Maiorano
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