Quando bastava una tammorra, un graffio sul ginocchio e un bicchiere di vino per sentirsi vivi
Pubblicato da Ugo Maiorano in storie · Martedì 24 Giu 2025 · 5:45
Tags: Ugo, Maiorano, sito, ufficiale, tammorra, graffio, ginocchio, bicchiere, di, vino, sentirsi, vivi
Tags: Ugo, Maiorano, sito, ufficiale, tammorra, graffio, ginocchio, bicchiere, di, vino, sentirsi, vivi

Tradizione popolare e solitudine moderna: quando bastava una tammorra, un graffio sul ginocchio e un bicchiere di vino per sentirsi vivi
C’era un tempo in cui le giornate finivano con l’odore della legna bruciata e le sere si aprivano come piccoli teatri di comunità. Non c’erano schermi da guardare, notifiche da controllare o mondi virtuali da rincorrere. C’era solo la realtà — quella vera, fatta di visi conosciuti, mani callose, risate genuine e storie raccontate mille volte, sempre con qualche particolare in più.
In un tempo che sembra lontanissimo — ma che vive ancora nei ricordi e nei vicoli dell’Agro Nocerino-Sarnese — le serate non avevano bisogno di connessioni veloci. Bastava una tammorra, una voce che si alzava a canto a distesa, un bicchiere di vino torbido ma sincero, e la voglia di stare insieme.
I nonni, seduti su una panca o su uno sgabello traballante, erano i custodi della memoria. Raccontavano storie che mescolavano verità, fantasia e un pizzico di vanteria:

“Tuo bisnonno, con una sola mano, fermò un toro impazzito…”
“Una volta, nel '38, io e mio cugino camminammo tre giorni con solo un tozzo di pane…”
“Durante un bombardamento, tua bisnonna si nascose con cinque bambini sotto una scala. Il tetto crollò, ma a loro non successe niente. Lei diceva che fu la Madonna a coprirli col suo mantello.!”
“Tuo zio una volta, con la sola forza delle braccia, bloccò un carro di grano che stava scivolando in una scarpata. Nessuno ci crede, ma io c’ero!”
“Nel ’43, io e mio fratello nascondemmo due soldati americani nel pagliaio. Parlavano una lingua strana, ma avevano gli occhi buoni. Ci diedero una tavoletta di cioccolata: era la prima volta che ne vedevamo una!”
Noi li ascoltavamo a bocca aperta, occhi sgranati. Non importava quanto fosse vera la storia. Era magia popolare, un cinema fatto di parole, più potente di qualsiasi serie TV.
Nel frattempo, i ragazzi riempivano le strade di energia. Bastavano due pietre per fare la porta di una partita a pallone. Si correva nei vicoli, si giocava a nascondino, a guardie e ladri, a campana. Si costruivano archi, fionde, carrette fatte con vecchi cuscinetti a sfera. Si litigava e si faceva pace nello stesso pomeriggio.
Si tornava a casa con le ginocchia sbucciate, le mani nere di terra, le magliette strappate e un sorriso largo fino alle orecchie. I genitori brontolavano, ma dentro ridevano: quei graffi erano il segno che la vita scorreva nelle vene.

Si tornava a casa con le ginocchia sbucciate, le mani nere di terra, le magliette strappate e un sorriso largo fino alle orecchie. I genitori brontolavano, ma dentro ridevano: quei graffi erano il segno che la vita scorreva nelle vene.
E quando calava il buio, cominciava il vero spettacolo popolare. Bastava che qualcuno tirasse fuori una fisarmonica, un organetto, un tamburello o una tammorra, e la festa prendeva vita. Si battevano le mani, si cantava, si ballava la tammurriata, quella vera, che nasce dal cuore e segue il ritmo delle radici.
Si ballava a coppia, a cerchio, per fede o per gioia. Le donne preparavano da mangiare: pane abbrustolito, olive, pomodori, e vino fatto in casa. Il vino non era una fuga, ma un simbolo di unione, un brindisi alla vita.
Si ballava a coppia, a cerchio, per fede o per gioia. Le donne preparavano da mangiare: pane abbrustolito, olive, pomodori, e vino fatto in casa. Il vino non era una fuga, ma un simbolo di unione, un brindisi alla vita.
In quei momenti, anche chi era triste trovava rifugio. Bastava una canzone, uno sguardo, una battuta detta in dialetto, e il peso della giornata si faceva più leggero. La comunità era la cura. C’era sempre una mano tesa, una sedia in più, una risata pronta.
Tra i momenti più belli dell’anno, c’era la raccolta dei pomodori. Altro che lavoro: era una festa in famiglia. Ci si svegliava all’alba, si andava nei campi con i cesti vuoti e l’allegria piena.
Qualcuno lanciava un pomodoro in testa al cugino per ridere, e il papà urlava:
Qualcuno lanciava un pomodoro in testa al cugino per ridere, e il papà urlava:

“Oh! Ma che facite? Chest so’ pummarol a mangià, no pe fa' a guerra!”
Verso le 9 o 10 del mattino, arrivava il primo premio: pane cafone, olio buono, pomodori appena raccolti e un bicchiere di vino. Tutti seduti per terra, si rideva e si riprendeva fiato. A mezzogiorno, il pranzo vero: pasta con il sugo, peperoni imbottiti, melanzane fritte, olive e pane.
Poi, la pennichella pomeridiana sotto un albero, nel silenzio caldo del pomeriggio. Stanchi, sì, ma felici. Perché c’era senso, calore, umanità.
Poi, la pennichella pomeridiana sotto un albero, nel silenzio caldo del pomeriggio. Stanchi, sì, ma felici. Perché c’era senso, calore, umanità.
Oggi invece viviamo inondati da connessioni artificiali, eppure profondamente disconnessi dentro. I ragazzi faticano a parlarsi dal vivo, gli adulti si rifugiano nel silenzio di case piene di tecnologia ma vuote di calore umano. La depressione cresce silenziosa, invisibile ma potente. Siamo circondati da stimoli, ma sempre più poveri di relazioni autentiche.
Eppure, la tradizione non è morta. Vive ancora nei tamburi che battono a Pagani, nei canti che si alzano a Sarno, nei vecchi che raccontano, nei giovani che — ogni tanto — ascoltano. Vive nei campi, nelle feste, nelle tammorre che tremano tra le mani.
Non è nostalgia. È eredità. È radice. È medicina.
La tradizione popolare ci insegna che per stare bene non serve molto: una storia da raccontare, un amico con cui ridere, una musica da seguire, un bicchiere da alzare insieme.

Forse la felicità non sta nei like, nei follower o negli schermi ad alta definizione.
Forse la felicità è in un graffio sul ginocchio, in una risata sotto le stelle, in un bicchiere di vino sorseggiato al ritmo di una vecchia canzone.
Forse la felicità è in un graffio sul ginocchio, in una risata sotto le stelle, in un bicchiere di vino sorseggiato al ritmo di una vecchia canzone.